La pluripremiata attrice Cinzia Spanò spazia con disinvoltura da un ruolo all’altro con la grinta e la professionalità che la contraddistingue
Cinzia Spanò, dopo il diploma all’Accademia dei
Filodrammatici di Milano, si misura in ruoli differenti, diretta da grandi
registi come Massimo Castri e Antonio Latella, Massimo Navone.
In scena ora con
il ruolo brillante di una moglie tradita e che tradisce il marito in “Toccata e
fuga”, caratterizza il suo personaggio con ironia e destrezza, e racconta come per
un’attrice sia stimolante ma anche complesso scegliere i ruoli da interpretare:
«la parte più difficile del nostro lavoro è continuare a
lavorare, io prediligo alcune tipologie di personaggi e alcune corde interpretative
che si adattano meglio alle mie caratteristiche, anche se mi piacciono molto
anche i ruoli brillanti come quello che sto interpretando ora in “Toccata e
fuga”, in cui esagero anche la caratterizzazione, mi diverto. Tuttavia
preferisco interpretazioni più tormentate che mi piace studiare a fondo. Appena
uscita dall’Accademia avevo già interpretato “Toccata e fuga”, oramai vent’anni
fa, nel ruolo dell’amante, ora sono contenta di tornare ad interpretare un
altro personaggio, poiché mi trovo bene nella Compagnia del Teatro San Babila e
perché è una commedia vivace e genuina di puro intrattenimento.»
Cinzia Spanò ricorda i registi che sono stati per lei maestri che ha incontrato dopo essersi diplomata ai Filodrammatici, e da cui ha imparato molto: «quando passi attraverso l’insegnamento di alcuni maestri, non sei più la stessa: ho imparato molto da Massimo Castri quando mi ha diretta in “Madame de Sade” di Yukio Mishima. Eravamo tutte donne e, dopo una stimolante prova a tavolino durata 18 giorni, tantissimi nell’economia dell’allestimento di uno spettacolo, abbiamo imparato una lettura psicanalitica che Castri riusciva a fare per questi personaggi femminili, cesellando alcuni passaggi dell’animo femminile che per noi donne sono stati una rivelazioni. Poi il mio maestro è stato Latella; con lui ho affrontato autori molto importanti, con lui ho imparato l’etica di stare in scena: gli spettacoli si fanno perché nel testo è sottesa una urgenza, una necessità. Anche oggi quando scelgo uno spettacolo, penso sempre che ci deve essere un motivo profondo per cui interpretarlo, come ho fatto per esempio nel mio testo “Marilyn mon amour”, o nel mio adattamento di “A Nome Tuo”, tratto dall’omonimo romanzo di Mauro Covacich sul poter scegliere la fine della propria vita, scritto dopo il caso di Eluana Englaro, o ne “Il vicario” di Rolf Hochhuth sul silenzio della chiesa durante le deportazioni ebraiche. Il teatro deve fare emergere domande, adeguarsi al tempo in cui si vive, noi attori dobbiamo assumerci la responsabilità di trasmettere dei messaggi al pubblico. Al San Babila sussiste la bella tradizione di incontrare il pubblico nel foyer alla fine dello spettacolo, è un valore aggiunto, poiché il confronto attore/spettatore diviene un efficace modo di riflettere insieme.» Ar.C.
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